Isella. Eccolä, mio diletlo! a. 2. Che gioja provo in petto! il cor nii fai saltär. Isid. Almen nel far l’amore märmotte noi non siamo. Isella. O al nostro padroncino, affe non somigliamo. Isid. S’ e accanto alla sua bella, ei vä guardando in sü. Isella. Ed ejla, ehe ha un gran spirilo, soffre quel turlulii. Isidora. Sno padre e disperato. Isella. A lui non farä onore. Sargino. Si, o fia d’onor fregiato, o di dolor morrä. Isidora. Lo credo. (Isella) Si dicea. Sargino. Basta, v’intesi giä! — Ah voi troppo er udel mente or traltaste qui un meschino, ed il povero Sargino gode ognuno di sprezzar. Egli e ver, il torto e inio, mä perciö reo non son’io, io mi sento giusto la, per appunto la un gran peso, una folta oseuritä; ma riparo vi faro o di pena io morirö. Isidora. Deh Signore, a noi perdono! Isella. Siete buono, e si gentile. Sargino. Io temeva — io gentiluomo or non ho piü ehe a temere. Isella ed Isidora. Se sapeste — (Sargino) Che Che so io? finor ehe appresi! Sargino. Ah vergogna al mio torpore! ah! vergogna a questo core! ma c’e li, c’e li quäl cosa, vo sapei' cos’e, e’l saprö. Cari miei, vi prego andare, quä tuo Padre gli ho a parlare.